MARE NOSTRUM, MARE VESTRUM, MARE OMNIUM
Testo di Walter Venchiarutti
Prospettive della mostra
Sono sostanzialmente tre le dimensioni che caratterizzano la dinamica attività di Adriano Rossoni : l’arte, l’insegnamento e l’impegno sociale. In ognuna di queste si sono espresse parimenti e in modo equilibrato creatività, disponibilità e concretezza. Dovendo focalizzare l’attenzione sull’aspetto più propriamente artistico del personaggio è impossibile scinderle alla stregua di elementi disgiunti. In ogni lavoro compaiono equilibrate la genialità del demiurgo, la pazienza del docente e l’attualità arcaica dei soggetti trattati. Il linguaggio dell’artista, che disegna scolpendo le figure, fugge dalle correnti care all’astrattismo concettuale, non segue i canoni delle mode ma, con sorprendente capacità prospettica e attraverso la magistrale padronanza figurativa, scende nelle realtà dell’uomo moderno e svela le antinomie. Le opere esposte nella mostra “Mare Omnium”manifestano una perfezione e una nitidezza formale degne di un Maestro rinascimentale. Al primo impatto procurano un forte senso di stupore. Tale è l’emozione che l’osservatore comune prova, favorita dalla naturale eleganza del disegno, perché dalle immagini e dalle scenografie quasi istantaneamente scaturisce un luminoso piacere visivo. Osservandole con più attenzione si coglie una straordinaria capacità evocativa che sa andare oltre la primitiva sensazione, arriva a lambire la coscienza, pone ad ognuno quesiti di non facile soluzione. Il pensiero corre ai continui paralleli, ai richiami mitologici offerti dalla classicità. Ogni interlocutore resta magnetizzato poiché sembrano entrare in crisi le certezze accumulate, dopo anni di errori. Le visioni suscitate, in qualunque modo la si pensi, costituiscono fonte di un profondo impatto intellettuale. L’immediata percezione emotiva facilita quella consolidata dimestichezza, maturata ai precetti della millenaria tradizione cristiana. Così pure non restano indenni le corde di un secolare, mai sopito, solidarismo sociale. Sono rappresentazioni fortemente evocative che diffondono una inequivocabile compassione e aprono una breccia, fino a raggiungere gli interessi del cuore. Al di là della valutazione estetica, l’artista ci porta ad affrontare le problematiche sociali, i grandi temi, le antitesi che assillano il mondo d’oggi: la mondializzazione, la mobilità lavorativa, la precarietà sentimentale, lo sradicamento e la radicalizzazione, gli impulsi identitari, le posizioni che da sempre mettono in discussione il nostro confronto con il diverso. Le trame rievocano i racconti della grecità, dove i protagonisti assumono sembianze famigliari, sono amici, conoscenti e si muovono spesso nell’intimità dello studio del pittore. Di frequente si propone la rappresentazione di autoritratti. Questo espediente, non risponde a pruriti di compatibile narcisismo ma è il pretesto di una più diretta testimonianza dell’impegno etico. In tale modo il singolo partecipa alle tragedie collettive, è oggetto e al tempo stesso autore degli eventi. L’entrata in scena di un argomento risponde a valenze di vera e propria partecipazione politica e, come in uno specchio, primi attori e comparse danno luogo al teatro della vita. La manifestazione artistica diventa educazione, archetipo esemplare di altrettante situazioni esistenziali. Prende forma un modello universale a fruizione popolare che giunge chiaro e comprensibile, a prescindere dall’epoca, dall’individuo o dal gruppo che ne sono occasionalmente destinatari. La funzione argomentata non è mai lezioso coronamento alle tristezze umane ma monito, sprone alla redenzione sociale. Tale prerogativa trascende le contingenze e proietta l’opera in una sfera alta, sacrale. Siamo quindi lontani da espressioni di autocompiacimento e questo lo rileva bene la recentissima “NARCISSUS”, un’opera a matita e conté bianco, espressione dei drammi racchiusi nella sempiterna vanitas umana.
Antropologia dell’ emigrazione
“Mare Omnium” ripercorre la tragedia cosmica di una umanità divisa e dolente, impegnata a combattere nell’intimo le conflittualità riposte nella coscienza (la fuga, l’abbandono, l’identità, l’inserimento) e all’esterno la lotta con gli elementi naturali e con il prossimo. Le prorompenti passioni che agitano questo travaglio vengono colte dalla sensibilità di Adriano Rossoni e diventano leit motiv di una rappresentazione storica, un fenomeno che travalica le epoche e trova validi archetipi nel riscontro con il mondo epico, grazie alla crudezza delle immagini, accresciuta dal verismo prospettico, dalle dicotomie e complementarità sempre presenti: amore e morte (EUROPA E IL TORO), sofferenze e sacrificio (FIGLI DI DEDALO), speranza e illusione (MITHYCA MONSTRA ET VANAE SPES), il dolore (IL COMPIANTO, PIETAS NERA, ACTAEON). La rassegna prosegue con le identità perdute (MISERI FRATRES, IL PENTIMENTO DI ARIANNA), guerra e intolleranza (MINOTAURUS), radicalizzazione e terrorismo (OEDIPUS). Resta evidenziato lo stretto legame, l’indissolubile corrispondenza tra un passato sempre connesso all’attualità. La storia insegna come ogni evento comune possa inevitabilmente essere destinato a riproporsi nel tempo con uguale intensità. A nulla valgono gli insegnamenti antichi, le esperienze generazionali maturate con fatica, tutto inesorabilmente si ripete . Le fila della tragedia umana non trovano mai compimento. Le saghe del mondo antico tornano manovrate da potenze divine, non esenti da invidie e interessi terreni. Diventa naturale chiedersi chi e cosa costringa oggi tanti disperati ad abbandonare il suolo natio, affrontare pericoli e incertezze attraverso viaggi che sovente si concludono con esiti mortali. Tra le motivazioni, causa dei recenti esodi, difficilmente figurano la sete di conoscenza cara ad Ulisse e la fuga dell’esule dalle ingiustizie perpetrate a livello locale. Molti tra i profughi economici, lasciano il paese d’origine per inseguire le sirene dello sviluppo capitalistico, sperando in un miglioramento del tenore di vita. Questa ragione, più che legittima, andrebbe rapportata alle capacità d’inserimento disponibili nei paesi prescelti. Gli espatri di massa incontrollati, al di là delle utopie che ci vorrebbero tutti cittadini del mondo, quando la crisi avanza, contribuiscono alla destabilizzazione sociale, politica ed economica del paese ospitante. Gli esiti negativi allora si ripercuotono inevitabilmente sugli ospitati sovente trattati alla stregua di nuovi schiavi e di manovalanza da sfruttare e favoriscono conflitti orizzontali tra mixofobi e mixofili. Cause preminenti dell’emigrazione restano la fame e la guerra. Entrano così in gioco le responsabilità di un Occidente che, dopo un passato di imperialismo coloniale, con la mondializzazione sta portando a termine quanto non era riuscito a compiere in precedenza. La desertificazione delle terre, dovuta a fattori climatici, è il triste risultato dell’inquinamento atmosferico. Sembrano diventati prassi consolidata i gli interventi volti alla destabilizzazione. Non casualmente l’interesse economico prende di mira paesi del terzo mondo, ricchi di risorse minerarie, naturalistiche ed energetiche mai opportunamente indirizzate alle locali necessità. Similmente emerge il non giustificato comportamento rinunciatario di chi abbandona moglie, figli, genitori e scegliendo la via della fuga elude i doveri della resistenza. Se l’ideale identitario si esprime nella coscienza di condividere un passato storico, è necessaria anche la consapevolezza di saper affrontare il presente e un futuro dove inevitabilmente è prevista l’inclusione di nuove differenze. Ci sono diritti e doveri che andrebbero reciprocamente osservati. Non è sempre facile riuscire a dosarli perché se il mare, espressione massima della liquidità, è come l’aria un bene sfuggente, la terra resta un elemento solidamente tangibile. Ciò che si costruisce su essa diventa inevitabilmente appartenenza. L’accoglienza viene spesso discriminata mentre presso gli antichi era ritenuta sacra l’ ospitalità. Quando però, dimentichi del ruolo delle parti, viene meno il rispetto, la cortesia è scambiata per
debolezza e la violazione della legge finalizza il modello di vita, anche la convivenza può diventare insostenibile.
Il superamento delle antitesi
Il percorso espositivo proposto preannuncia le tappe di un viaggio intrapreso alla ricerca della salvezza. Le superbe ancone e i maestosi polittici, sorretti dall’espressività monocroma e dai lacerti sanguinei diventano sinonimo di altrettante metafore. Il distacco dalla terra d’origine con l’abbandono degli affetti paterni, i pericoli, le pene patite durante il percorso e infine il miraggio della terra promessa sono il filo conduttore che induce l’osservatore ad intraprendere un vero e proprio cammino iniziatico. La certezza di un approdo diventa quasi impossibile se non è sorretta da una irresistibile forza vitale. Ė la stessa potenza che sembra sprigionare dall’imponente telero della “RESURRECTIO” . Dall’alto dei suoi 11 metri la figura del Cristo regge, con le sue piaghe, le vittime della guerra, della malattia, della miseria e dell’emigrazione. Tale espressione energetica, è sintomo di una forza non umana racchiusa in ogni vivente, la sola in grado di riuscire a infondere speranza e superare i momenti difficili, ineluttabili come la morte. L’arte sociale di Rossoni è un invito esplicito alla meditazione; come nelle recenti esperienze dell’ “Onda generatrice” può diventare un monumentale cantiere sociale che assomma l’azione collaborativa di pittori, artigiani,assistiti e rifugiati. Lungo il corso dell’esistenza gli interessi politico-amministrativi e gli impegni professionali dell’artista sono stati intensi. Ė difficile pensare a quali traguardi di compiutezza tecnica sarebbe giunto qualora avesse perseguito ininterrottamente e in modo esclusivo l’attività grafica, ma forse una ulteriore perfezione avrebbe sminuito le doti della passione e del sentimento. Spesso dimentichiamo d’essere passeggeri momentanei di un pianeta su cui sarebbe opportuno vivere modestamente, senza ingordigia, allontanando desideri di sopraffazione o di invidia, possibilmente tenendo sempre presente gli obblighi verso la contemporaneità, dovuti non solo al prossimo, ma anche a tutti coloro che verranno dopo. Questo almeno dovrebbe essere il principale compito da richiedere all’artista.
Gennaio 2019
OLTRE
Piero Carelli
La straordinaria policromia della natura, le sue armonie e i suoi profumi?
Nulla di reale: la natura non ha colori, non ha odori…
I corpi non hanno qualità, ma solo quantità riducibili in ultima analisi a numeri. Non hanno neppure il peso. Sono pura estensione, pura spazialità.
Da Democrito a Galileo, da Cartesio a Locke fno a Newton, è questo il percorso flosofco che ha condotto a… vedere il mondo come lo vede Dio, oltre cioè l’osservatorio degli umani.
È dentro tale solco che mi pare di cogliere l’avventura artistica di Adriano Rossoni: l’esplorazione di corpi come sono in sé, non come li percepiamo con le nostre categorie soggettive.
Ecco i suoi corpi come sculture, le sue scenografe spaziali, il suo prevalente chiaroscuro. Ed ecco, in alcune opere, dei corpi sospesi nello spazio e nel tempo: una sorta di archetipi platonici immutabili, eterni. Non è un caso che sia lo stesso autore che, riferendosi alla sua creazione, parli di una “lettura distaccata, meditata”, addirittura “flosofca” dei corpi che raffgura, una creazione tutta orientata a svelare la “vera essenza”, la “vera natura dell’essere”.
Un approccio che troviamo pure nella sua lettura della mitologia sia nella sua versione pagana che in quella cristiana.
Una ricerca, la sua, che va oltre il racconto, oltre le immagini e che mira a scoprire il senso che trascende le stesse epoche storiche (è lo stesso mito, non solo la natura, che ama nascondersi): uun senso perenne, eterno.
Oltre: oltre la fgura del giovane Atteone che viene trasformato in cervo dopo avere visto la dea Artemide nuda, oltre la fgura di quell’essere - il Minotauro - per metà uomo e metà toro rinchiuso nel labirinto da Monosse, oltre la fgura di Europa, la bellissima regina fenicia che viene trasportata da Zeus (sotto le sembianze di un toro) sull’isola di Creta… Oltre la stessa fgura di Cristo.
Un oltre che Adriano Rossoni vede affollato da migranti. I migranti del nostro tempo, ma anche i migranti che hanno segnato l’intera storia dell’umanità. Vede l’uomo che fugge da condizioni invivibili, viaggi nel deserto, rischiose attraversate del Mediterraneo, tragedie in mare.
Vede la storia degli uomini e il loro diritto di fuggire dalla guerra e dalla fame, ma vede anche le paure, le preoccupazioni, perfno il terrore di chi avverte il diverso come una minaccia non solo al suo benessere, ma anche alla sua stessa identità (mito del Minotauro).
Adriano Rossoni non occulta nulla, neppure le paure del terrorismo (si veda il mito di Edipo), ma il suo è un invito ad andare oltre le paure, oltre la narrazione che pone esclusivamente l’accento sulle organizzazioni criminali che fanno businness sulla pelle dei migranti.
Un invito che non è uno schierarsi a fanco di una politica contingente o di un’altra, ma a fanco dell’umanità sofferente.
Un invito, in particolare, all’Europa (non è un caso che il mito della bellissima Europa che approda sull’isola di Creta sia centrale nell’opera dell’artista), il secondo continente più ricco del pianeta, a non ripiegarsi su se stessa, a non chiudersi nella propria fortezza, ma ad ascoltare le grida delle sofferenze altrui, memore di avere, se non altro, alimentato quell’ingiustizia sociale che oggi spinge tanti migranti a bussare alla sua porta.
Un invito, ma anche un monito: la fne di Narciso… docet.
Ma Adriano Rossoni non si limita a scrutare i messaggi universali racchiuse nelle grandi tragedie greche, ma attraverso la mitologia cristiana ( il nostro vede nella fgura di Cristo - sulla scia, tra gli altri, di David Strauss e Ludwig Feuerbach - un mito) ci invita ad andare oltre il dramma del nostro tempo e a costruire un tempo in cui i dannati della Terra risorgono, le sofferenze vengono riscattate, la dignità di ogni essere umano rispettata.
L’artista - lo sa bene Rossoni – è impotente di fronte ai grandi processi della storia (anche a quei processi – come la globalizzazione non governata e le tecnologie deigitali – che stanno provocando nuove e devastanti sofferenze), ma non per questo deve chiudersi narcisisticamente nella suaturris eburnea, lavarsi pilatescamente le mani: anche lui può e deve svolgere la propria parte.
Naturalmente, con il suo linguaggio. Con la sua forza evocatica.
L’arte di Adriano Rossoni, grazie anche alle sue didascalie, parla a tutti. Lo spettatore della mostra Mare Omnium lo potrà verifcare di persona, con il suo sguardo e con le sue emozioni, e non potrà fare a meno di interrogarsi. Di interrogarsi su cosa può fare, pur nel suo piccolo, per rimuovere le cause di tante sofferenze: i dannati della Terra non sono destinati a soffrire, ma hanno il diritto di risorgere.
Gennaio 2019
RIFLESSIONE DAVANTI ALLA MOSTRA "MARE OMNIUM"
lettera di Don Cristoforo Vescovi
LA SOFFERENZA MI DA’ DA PENSARE…
La sofferenza mi dà da pensare.
Non credo che evitare il dolore sia meno santo che cercarlo. Non credo in un Dio che mi manda delle prove per mettere alla prova il mio amore. Non ci credo. Come non capirei un padre che mandasse delle prove al figlio piccolo perché gli dimostri quanto lo ama. O un uomo che facesse lo stesso alla donna che ama. Non credo in quel Dio che mi fa soffrire per vedere come reagisco. Bene o male. Essendo all’altezza della situazione o lamentandomi. Integro o spezzato.
Credo piuttosto in un Dio misericordioso e buono che vuole il mio bene. Che vuole la mia pace. E che non soffra. Che vuole che sia libero e pieno. Che desidera che impari ad amare meglio, con più maturità. E so che ogni amore comporta sempre sofferenza.
E in quella sofferenza che affronto Egli mi ama. So che chi ama soffre donando la vita. Perché donare fa male. Ma non do più valore all’eroismo nella sofferenza che all’offerta di sé in tempi di pace. Anche se riconosco di ammirare tanto quelli che portano la propria croce con un sorriso inciso nell’anima e sono capaci di sostenere gli altri con la loro allegria dalla croce dolorosa che vivono. Guardare gli occhi di qualcuno che la sofferenza non separa da Dio fa effetto. Non si lamentano, non incolpano Dio per il suo silenzio.
Li ammiro nella loro dedizione generosa e pura. Ammiro la loro generosità. Io sono spaventato dal dolore. Temo la croce. Mi commuovono le lacrime di chi soffre. Dentro di me si risveglia la compassione. Soffro con chi soffre.
E ovviamente non voglio che nessuno soffra a causa mia. A volte non ci riesco e causo dolore con le mie azioni, con le mie omissioni, con le mie parole. Faccio soffrire altri. E non posso nemmeno evitare il dolore di tanti uomini che soffrono
al mio fianco. Vedo tanto dolore e mi sento incapace di alleviarlo.
A cosa serve la mia vita donata per amore nei confronti degli uomini? È vero che a volte posso vedere l’utilità della mia offerta. La fecondità della mia vita che guarisce le ferite.
Sono momenti sacri in cui Dio mi lascia vedere attraverso una piccola fessura che la mia vita ha tanto senso. Sono momenti di gioia che custodisco nell’anima per sempre. Perché mi sono sentito utile dando la vita.
Ma so che altre volte non lo vedrò. Mi sentirò sterile. Continuerà ad esserci molto dolore intorno a me, e il mio servizio e il mio amore non riusciranno a placarlo. E non vedrò l’utilità della mia offerta. Ma so che neanche allora smetterò di lottare per offrire il mio apporto. Per donare la vita. Soffrendo con chi soffre.
…E continuerò a stare ai piedi della croce degli uomini senza poterli far scendere da lì. Cercherò di fare quello che fa Dio, che non si allontana dal mio dolore né dalla mia croce, che non mi fa scendere dalla mia sofferenza. Forse un giorno in
cielo comprenderò i suoi silenzi. Comprenderò il senso di tante croci. Forse imparerò ad ascoltare meglio i suoi silenzi. E comprenderò che il suo amore è sempre stato al mio fianco, camminando con me, caricandosi la mia croce e
quella di tanti altri. Anche se io non l’ho visto. Non capisco le ingiustizie né la sofferenza. Ma credo nell’amore infinito di un Dio che mi ama come sono, nella mia vita. E mi salva. Voglio quella fiducia nel suo amore in silenzio che sostiene la mia vita quando soffro. Quando mi dono per chi soffre. Quando vedo soffrire altri.
Mi piace guardare così la mia vita. Il mio dolore. Il dolore di tanti. Non temo quando confido nel suo amore crocifisso per me. In un amore che non mi lascia solo quando gemo pieno di angoscia.
Non so se la mia sofferenza salva qualcuno. Non lo so. Non credo che Dio lo voglia.
Ma io soffro.
E qualche senso avrà quando riuscirò a vedere la mia vita con più luce in cielo. Quando tutto sarà più chiaro. E capirò….
25 ottobre 2018
“LUCI E OMBRE”
ADRIANO ROSSONI E ILIA RUBINI A BIPIELLE ARTE
Aldo Caserini
Quanta pittura ai nostri giorni è “impegnata”? Non nel senso di politicamente o polemicamente engagèe , ma eticamente impegnata a formulare un’immagine che non sia semplice esercitazione lessicale tecnico-sperimentale, ma espressione di una autentica ricerca di rispecchiamento esteso a tutta l’umanità, non sia perciò solo documento solitario individuale ma manifestazione comunicabile al prossimo, agli altri, al mondo? Forse, una risposta si può estrarre dalla bella mostra inaugurata sabato a Bipielle Arte da due artisti che affrontano temi umanissimi, psicologici, patetici che riguardano l’uomo e la sua figura, il suo bisogno di speranza e di riscatto, trasmessi in maniera più o meno diretta, più o meno traslata o allusiva. Uno è un maestro bergamasco, già docente nella “cugina” Crema e ora all’Accademia Santa Giulia di Brescia, un narratore “certificato” su una linea classicheggiante, impegnato a dare alle immagini significazioni simboliche ed estensive in chiave filologica; l’altra è una pittrice locale, di derivazione neo-realista e d’ispirazione vagamente letteraria, disposta a dare significato a visioni soggettive e interiori. Questi in sintesi gli stimoli della figuratività che Adriano Rossoni e Ilia Rubini offrono nella mostra allo spazio di via Polenghi Lombardo.
L’artista bergamasco è noto per lo stile, gli interessi culturali, il percorso artistico, per essere artefice di una figurazione impregnata di “pensiero”. Nel lodigiano è stato visto più volte negli ultimi tre anni: all’ex-chiesa di San Cristoforo in una personale sul mito classico e una seconda volta con uno straordinario telero di 14 metri per 6 dedicato alla Risurrezione,mentre una terza presentazione è stata dedicata a Ulisse e ai migranti vittime di viaggi disperati.
I lavori in Bipielle (sanguigne su carta bianca, con acrilico su tela, matite r conté su fondo grigio, matite e pastelli ad olio ecc.) ribadiscono pertanto un’arte di qualità grafica alta e di senso, che si intreccia in vario modo a narrazioni e a corpi, in cui il visitatore ritrova sentimenti, impulsi ed emozioni e l’artista fa incontrare la ragione (la filosofia) e il quotidiano (il momento, il batter d’occhio, la poesia), e, più spesso, la memoria, la storia.Diversi quelli della Rubini, che vanno incontro più a un gusto di recupero letterario giostrato in chiave realistica, a cui è concessa qualche tentazione esibitiva. Si tratta di lavori in cui è prevalente un senso visivamente monocorde. Gli oli più impegnativi nascono da una lettura della vita in cui convergono richiami a certo figurativo “impegnato”, intrappolano espressioni e sensibilità nel il monocromatismo. La poetica e la pittura non convergono nelle declinazioni con quelle di Rossoni. sono espressivamente e suggestivamente diverse, ma non si disturbano. La Rubini è più posizionata nel dare valore a verità soggettive, a creare sottili e misteriosi contrappunti attraverso i simboli. Nella sua arte si riconosce un momento storico di precise preferenze estetiche, di cui mostra radici come poche ai nostri giorni capita di vedere, di profonda e vissuta esperienza.
Articolo pubblicato sul quotidiano del Lodigiano e Sudmilano “il Cittadino” il 18 gennaio 2016
e sul blog Forme70
ADRIANO ROSSONI, MYTHICA MONSTRA ET VANAE SPES
Aldo Caserini
L’atto creativo per poter essere considerato riuscito deve possedere la potenza espressiva necessaria. Spacciare per creatività ciò che è genericamente espressività o virtuosismo, è un equivoco, una mistificazione alla quale Adriano Rossoni, dimostra sempre di volersi sottrarre.
La sua funzione di artista è sempre apparsa come una funzione attuativa del principio individuativo: che sa coniugare i processi dell’inconscio e della poesia con quelli della razionalità e della coscienza, da alimentare con la ricchezza del proprio pensiero e della visione la riflessione attorno alla realtà attuale in modo nuovo e diverso. All’occorrenza in modo provocatorio e controcorrente. Come, appunto, in “Mythica monstra et vanaes spes”, in cui fa incontrare immagini del leggenda mitologica mediterranea con quelle – meno letterarie e più realiste – di una possibile mitologia futura. Lo fa presentando tre pannelli che fan parte di un progetto avviato per l’Asl di Bergamo, al quale partecipano e si riappportano con inconsueto impulso significativo gli episodi espostI al Calicantus Social Art nella hall del Ospedale Maggiore di Lodi. Tre lavori di forte suggestione pittorica, etica e letteraria che fanno emergere lo spessore maestro di questo artista.
Nel mare delle seducenti sirene incantatrici incontrate da Ulisse, dove molti muoiono alla ricerca di Itaca, egli colloca le sofferenze dei corpi e delle menti dei migranti-figli, creando con anticipo quella che si può immaginare una possibile “mitologia futura”. E lo fa coinvolgendo come modelli in una collocazione psicodinamica michelangiolesca, i propri figli.
I disegni presentati in Largo Donatori di Sangue, che hanno il loro core narrativo in quelli presentati all’Asl di Bergamo, iscrivono l’anelito degli uomini alla libertà e a condizioni di vivibilità in una mitologia di disperazione e dolore; in quello che l’artista ha chiamato, nel suo intervento di presentazione dell’opera, “un viaggio disperato alla ricerca della propria Itaca”.
I corpi degli uomini, soprattutto di giovani disperati che affondano nei fondali mediterranei, interrompendo il loro viaggio di speranza, sono il dato centrale di una pittura che trova fili di congiunzione attraverso la descrizione del mondo mitologico di Omero.
Superbamente, Rossoni fa (ri)contattare agli occhi e alle orecchie dei visitatori le grida e le emozioni di tanti disperati in fuga dalle guerre, dalla fame e dalle carestie e attratti dalle sirene del mondo capitalistico e consumista. Il Mediterraneo è immaginato come un grande acquario, dove le ampie e drammatiche figurazioni dei corpi annegati liberano le potenzialità del linguaggio e fanno entrare in relazione vivente e sensibile con ciò che ci circonda.
Se nella sua essenza fernomenologica, corpo fa rima col gioco, col piacere ed è da porre accanto ad altri fenomeni della vita, le figurazioni di Rossoni, che non a caso ha scelto per modelli i propri figli (“Come ci comporteremmo noi se quei corpi fossero quelli dei nostri figli”, ha chiesto provocatoriamente l’artista rivolgendosi al pubblico), alimentano il significato non solo di una grande allegoria (pittorica) ma a riconoscere quel che c’è dietro alla parabola e ai simboli: la disperazione e il dolore, che conducono il pubblico a una conversione dell’attenzione, a rompere alcuni schemi per una visione sempre più cognitivizzante.
Quella di Rossoni non è insomma solo una pura “lezione” di pittura e di maestria pittorica.
Articolo pubblicato sul quotidiano del Lodigiano e Sudmilano “il Cittadino” il 18 gennaio 2015
e sul blog Forme70
ROSSONI ESALTA LA FORZA DEL CRISTO
Marina Arensi
Quattordici metri di altezza per sei di larghezza,una dimensione di inusitata imponenza per un’opera d’arte collocata in uno spazio chiuso, tanto che persino le volumetrie della chiesa di San Cristoforo a Lodi sembrano conferire respiro contenuto alla figura del Cristo, impressa sui tre teleri della superficie pittorica. Un lavoro di forte effetto scenografico,
a partire dal suo disvelamento sabato scorso all’apertura della mostra Resurrectio. Il grande telero e i relativi studi,nell’ambito della rassegna Naturarte, nato dal progetto che lo ha collocato lo scorso aprile sulla facciata della torre civica nella piazza di Mozzanica, il centro del Bergamasco patria del suo autore, Adriano Rossoni. Già protagonista a SanCristoforo lo scorso anno con disegni quasi altrettanto monumentali,Rossoni si inserisce nel contemporaneo dell’arte sacra intrecciando raffigurazioni tematicamente attuali con un mezzo tecnico antico come la sanguigna,e da disegnatore antico traccia le immagini della vicenda umana con la morbidezza e i passaggi chiaroscurati consentiti dall’ematite,dosando sapientemente l’intensità di stesure e segni.Quelli di Rossoni ricercano l’incisività espressiva. Tutto è vibrante nei dettagliati personaggi che intorno alla “Resurrectio” rievocano capitoli drammatici della storia del nostro tempo: e la visione del disegnatore traduce in racconti dai risvolti metaforici la forza di un credo. Quello di Rossoni è un Cristo che salva. Nella dimensione che comunica grandezza e potenza si staglia nella fissità statica, unico tra i viluppi di figure in movimento, presenza di forza indistruttibile che sembra offrirsi come approdo sicuro. Sono le
piaghe del suo corpo a incarnare la possibilità di riscatto per l’umanità sofferente che vi si aggrappa. Migranti,vittime della guerra, della fame e della malattia: una metafora del dolore esistenziale resa attraverso la padronanza disegnativa che attinge alla lezione della classicità,
l’attenta resa anatomica e fisiognomica tra i dati più evidenti.La mostra che si chiude domanI (domenica) è tutta costruita nel clima delle tinte rossastre in calde gradazioni, più intense nelle carte che alle pareti laterali conducono alla scena principale in un excursus lungo i procedimenti compositivi di Rossoni e nei suoi caratteri linguistici.Si tratta degli studi e dei lavori preparatori alla raffigurazione centrale, che ritraggono corpi, volti, atteggiamenti ed espressioni colti dal mondo degli affetti. È qui che il disegno, nel suo ruolo di annotazione e fissaggio di intuizioni e visioni, svela le sue specificità, la scioltezza del tratto che cerca il dettaglio e la fedeltà al vero,
la resa dei moti dell’animo; ma rivela anche l’intento di compenetrazione tra la vicenda artistica e quella esistenziale.
Emblematica in tal senso è la presenza dell’autoritratto dell’artista in più di un’immagine, allo stesso modo dei volti dei figli o di amici.
Articolo pubblicato sul quotidiano del Lodigiano e Sudmilano “il Cittadino” il 5 luglio 2014
LA POTENZA DELL’ARTE CHE RINASCE
Rossella Mungiello
Leggermente inclinato,quanto basta per avvolgere lo spettatore in un ideale abbraccio.
Quello di un’umanità grande, che sovrasta nella sua ieratica bellezza. Alto 14metri, largo sei, il Cristo che risorge, nell’ex Chiesa di San Cristoforo,sorprende il visitatore non appena varcata la soglia dell’edificio religioso, oggi adibito a sala per mostre. Opera di Adriano Rossoni, classe1952 di Mozzanica, dove vive e lavora, già docente di disegno all’Accademia di BelleArti Santa Giulia di Brescia, s’intitola Resurrectio ed è al centro della mostra che si apre oggi pomeriggio, alle 16.30, con un vernissage in cui si mescoleranno le voci dei critici, come Gianluigi Guarneri e GiancarloCapetti, e i curatori Mario Quadraroli, anche anima della rassegna Naturarte, e Maria Emilia Maisano Moro. Nell’inaugurazione, spazio anche alla musica, con le tavolozze sonore del Chalumeau ensemble dell’Accademia musicale Gaffurio di Lodi e alla performance di voci e note Legenda, a cura di Gianni Grecchi e MarioPercudani, con i testi di Anita Cerrato
e le letture di Vanda Bruttomesso. Il grande telero - già calato dalla torre civica di Mozzanica nei giorni di Pasqua è esposto con un ciclo di studi che hanno preceduto eseguitola realizzazione dei tre teli in cui si scompone il Cristo che risorge A Lui si affidano, cercando salvezza, uomini e donne che vivono dolori e
privazioni, vittime dell’esistenza che trovano, nelle piaghe del Signore risorto, l’appiglio per salire al cielo e sollevarsi dalla sopraffazione.
Sono le vittime della fame e della miseria; quelle delle guerra; quelle della malattia e degli affetti,coloro che perdono persone care;sono i migranti che vivono uno sradicamento forzato, simboleggiato dalla barca ai piedi del risorto. Come la vita, anche il corpo di Cristo, è inquieto, percorso dalla tempesta
della sofferenza dell’uomo. La pelle sembra vibrare, scossa dal movimento di nervi e muscoli; il volto e lo sguardo sono duri, perché decisi a contenere il male.
«Ci voleva un Cristo potente – ha spiegato l’artista- simbolo di quell’energia che sta nel cuore di ogni uomo che soffre e che si rialza».
Una forza primordiale, che permette a un padre di rialzarsi anche quando perde un figlio, e che è al centro della dialettica dell’esistenza, nucleo narrativo di questo viaggio nell’estetica dell’arte sacra diAdriano Rossoni. «Di veramente sacro c’è l’esistenza umana e l’arte diventa un modo per riflettere sui problemi dell’uomo - ha aggiunto l’artista, che ha già esposto a Lodi per Naturarte lo scorso anno, con i lavori Il sacro e Il mito -: io credo in
una pittura capace di parlare al popolo, in un mondo che si sta rinnovando e che ha sempre più bisogno di valori positivi». Un plauso alla mostra è arrivato anche dall’assessore alla cultura del comune di Lodi, Simonetta Pozzoli, anche vicesindaco, per«quest’opera capace di trasmettere un messaggio importante a tutta la città, quello dell’umanità grande del Cristo e della sofferenza».
Articolo pubblicato sul quotidiano del Lodigiano e Sudmilano “il Cittadino” il 28 giugno 2014
ROSSONI: ARTE, FORMA E CONTENUTO
Aldo Caserini
“Guardatemi come son fatta!”.ma il messaggio potrebbe anche essere:“Guarda oltre me, quello che indico”: Adriano Rossoni, è pittore controcorrente. Di quelli giovani e vecchi, che credono ancora alla poesia “alta”, hanno appetito di filosofia, di “spessore” e coltivano lo spirito del trasmettere e comunicare. Non propone una pittura di puri iconismi ma che da attualità e costruzione cognitiva all’ immagine. Non cerca la forma per sé stessa, la variazione educata o l’invenzione, bensì il modo per strappare alla poesia e alla storia segreti. Quel che una volta si diceva l’interrelazione tra forma e contenuto.
Diplomato a Brera, è docente dell’accademia Santa Giulia di Brescia dove insegna oltre che pittura e scultura, grafica video e multimedialità. Fa parte di una aristocrazia ristretta che alla forma da importanza in quanto interagisce col significato e lo rafforza. Nelle sue opere trovano congiunzione disegno, cultura espressiva e contenuti. Insieme sono coltivate le tribolazione dell’artigianalità dell’arte e la ricerca del vero, la tensione espressiva e la visione del mondo, che aiutano l’immagine ad evitare lo stereotipo.
Nella soggettistica sacra Rossoni scruta, ragiona, allarga la riflessione su presente e passato (a partire da dèi e miti). Svolge un racconto che non conosce separazioni nella storia del mondo dove tutto è tensione costante tra colpa, promessa, redenzione, tra comportamenti dell’uomo, drogaggio delle società corsa degli eventi e storia. Cristo, dice l’artista, è un fatto insindacabilmente storico. Ha un senso per i credenti e per i non credenti.
Il maestro appartiene al gruppo dei pochi che ancora sviluppano una poetica sorretta dalla filosofia. Che spiegano lo sguardo, il dipingere; l’ indagine del mondo, l’ interpretazione, le convinzioni, le scelte tecniche e di linguaggio.
Si era fatto conoscere a Lodi con una esposizione nel 2013, dedicata al mito. Si ripresenta ora, sempre al San Cristoforo, con Resurrectio, un grande telero (mt 6×14) che colpisce sia per la dimensione che per il contenuto e la collocazione e per il ciclo narrativo affidato a una serie di sanguigne a secco o miste acrilico “ che gli fanno contorno e ne ribadiscono i valori in ambito famigliare.“Resurrectio” è un tipo di pittura che l’artista ha “recuperato” dall’arte veneziana (o anche genovese), adatta a dare forza e intensità al ciclo narrativo:”:
“Alle piaghe del Risorto si appendono, in una volontà di sopravvivenza, i sofferenti della vita. E come la vita è il suo corpo, inquieto e in tempesta. Per credenti e non credenti, La Resurrezione è la speranza sempre rinnovantesi e la forza interiore che aiutano e ridanno senso alla vita nei passaggi più difficili e, apparentemente, disperanti.
Le piaghe sono metafora di una sofferenza superata. Rinviano ad un dolore immenso che ha trovato però al suo interno le ragioni del suo riscatto. Sono l’appiglio da cui discende una ritrovata, più forte, ragione di vita descritta in quattro quadri: le vittime della fame e della miseria; le vittime della guerra; le vittime della malattia e i sofferenti per la perdita delle persone care (le vittime degli affetti); le vittime della migrazione forzata (le vittime dell’ingiustizia globale). Per tutti, una speranza imperitura di una nuova vita: è possibile, qui e ora, una resurrezione verso una futura, migliore esistenza.”
Sono immagini inquietanti, di forte carica drammatica, che denunciano e fanno interrogare sugli aspetti della fame, della miseria, della guerra, delle ingiustizie, delle malattie e della morte. La figurazione classica, investita di forte sacralità e spiritualità e ricca di “pensiero”, rappresenta l’ antitesi a certo modo di fare arte attualmente. Ma è una risposta a quella modernità che si illude di ritenere Cristo sempre meno necessario, da legittimare la richiesta di autoaffermazione delle soggettività.
Olio, sanguigna a secco e mista acrilico, danno vigore all’espressione, esaltandone le cognizioni costruttive e scenografiche. In tutto c’è metodo, perfezionamento, dettaglio. Ma anche procedimento, originalità, personalità.
Articolo pubblicato sul quotidiano del Lodigiano e Sudmilano “il Cittadino” il 25 giugno 2014
e sul blog Forme70
NEL SEGNO DI ADRIANO ROSSONI
Enza Armiento
“La Pittura con filosofica e sottile speculazione considera tutte le qualità delle forme: mare, siti, piante, animali, erbe, fiori, le quali sono cinte di ombra e lume. E veramente questa è scienza e legittima figlia di natura, perché la pittura è partorita da essa natura; ma per dir piú corretto, diremo nipote di natura, perché tutte le cose evidenti sono state partorite dalla natura, dalle quali cose è nata la pittura. Adunque rettamente la chiameremo nipote di essa natura e parente d’Iddio”
Così nel “Trattato della Pittura”, Leonardo da Vinci riferiva dell’arte la natura prossima a Dio, al sacro, tema che, con il passare del tempo, è divenuto colonna portante di tutta la poetica pittorica di Adriano Rossoni, artista poliedrico i cui lavori sembrano avere forma ed espressione tenuta a fili tesi, di tratti significanti e ritmici.
I suoi dipinti monocromatici hanno l’ordine della chiarezza dello spirito che non si avvale di colore per mettersi in luce, ma traggono dal tratto crudo della matita la forza dell’espressione. Questa scelta è definita dall’artista “filosofica” e rientra nella sua percezione della vita fatta di scoperta e gioco di luci ed ombre, da cui le cose piatte acquistano rilievo. In questo gioco, niente viene sacrificato al colore, non c’è ricerca del roboante, quanto un semplice muoversi tra luce e tenebre,in quell’intermedio che partecipa ad entrambe, come un’ombra chiara, una luce oscura: la bellezza che ammalia.
Il monocromo toglie la componente cromatica, evita la dispersione dell’attenzione sulla differenza tonale, sulla differenza di superficie degli oggetti e concentra l’attenzione dell’osservatore sullo spazio che, prima di essere fisico è spazio mentale ed espressivo. Il monocromo mi permette di lavorare a maggiore profondità e in forma più mirata”
Del monocromo, l’artista ha percorso tutte le tecniche e usato i diversi strumenti, fino ad arrivare a prediligere la matita, il cui aspetto metallico, un po’ duro, gli permette di entrare nel dettaglio, riuscendo a mettere a fuoco alcuni percorsi mentali che con altri strumenti non è possibile fare: “Chi conosce le tecniche può verificare che la fusaggine ad esempio, lo strumento più antico per eccellenza, può dare effetti raffinatissimi, estremamente delicati, ma non riesce ad essere drammatica quanto la matita, come pure la contè non riesce ad essere drammatica quanto la matita”. La matita aggiunge: “crea un distacco tra l’osservatore e l’oggetto che viene osservato… priva del contrasto del bianco, stemperato lentamente e utile a mettere a fuoco gli elementi simbolici”.
Adriano Rossoni è docente all’accademia di Santa Giulia a Brescia dove insegna l’arte del Disegno. Ha, fin da piccolo, coltivato la passione per l’arte, fin da quando il padre lo portava con lui al circolo dove si giocava a carte e lui disegnava, con il gessetto sulla lavagna segnapunti, sotto lo sguardo divertito e ammirato dei giocatori. A quattordici anni realizza il primo dipinto murale sulle pareti del salotto di casa, ma il suo primo vero quadro, di cui ha memoria, è una commissione sul tema dell’uomo a diciassette anni: tema surreale, con uomini che uscivano da grandi manichini dechirichiani; a seguire un Cristo albero, la cui corteccia era composta dalle sofferenze dell’umanità…
La componente metafisica dell’arte e il tema della sofferenza patita per riscattare terzi hanno sempre suscitato il suo interesse, fin dall’ inizio del suo percorso artistico. Le sue opere, sono tutte frutto di intuizioni autonome all’interno di un discorso che si apre e si chiude in un singolo disegno, colmo di interazioni e simboli che egli cerca di sottrarre alla realtà e all’interazione profondamente simbolica della realtà con l’uomo: “credo che la realtà sia altro da ciò che appare e che porti con sè molti significati che ci appartengono, nonostante spesso ci sfuggano”. Parliamo di figurazione simbolica in cui la figurazione è il punto di arrivo dell’astrazione, aiuta a pensare, a capire che c’è una realtà possibile, un futuro possibile, un dialogo possibile tra l’uomo e la realtà, tra l’uomo e la natura e che la realtà, come in epoche mitiche, parla all’uomo:“Serve solo che l’uomo reimpari l’arte” dice l’artista.
Nei suoi ultimi spolveri, di due metri per sette, l’artista descrive Gesù in croce con i due ladroni e la sua deposizione dalla croce. Immagini che interrogano sul senso della vita e ispezionano la morte oltre il velo che strappa alla vita. Così, Rossoni si raffigura come carnefice nell’atto di strappare fisicamente la mano di Gesù dal chiodo. Non c’è tempo per gli attrezzi, il sabato si avvicina e non si può lavorare, non si può dare sepoltura ai morti: tutto deve compiersi e nel più breve tempo possibile: “nel rispetto delle forme, si dilaniano i corpi, anche il corpo di un Dio”
“Ma Cristo è morto e non ha più dolore” gli dico. “Ha già versato il sangue. Va riposto!” aggiungo.
“Non è il dolore, la sofferenza darebbe un senso all’operazione. Togliere senso al rispetto del corpo, sostituirlo con il rispetto della forma, lì è il sacrilegio!” mi dice.
Ad accogliere il corpo del Cristo vi è la Madre, una prima madre, terrena e materna, sofferente del pungolo delle spine del figlio, la testa poggiata a quelle: abbraccia il corpo morto del figlio come fosse ancora vivo. Una seconda madre: “la vergine sposa che perde il figlio uomo ritrovando il Dio. Non può più amarlo, solo adorarlo, teme anche di toccargli la mano. Si sente solo degna di abbracciargli il piede. I due ruoli…l’adorazione impedisce il protrarsi di un rapporto paritetico. Il tema del sacro implica una riflessione sull’interazione tra amore e adorazione, chiedendo al primo un avvicinamento e alla seconda un distanziamento. In questa tensione prende corpo la verità della natura umana, a mio avviso” dice l’artista.
E’ da specificare che per Adriano Rossoni il sacro non è da limitare alla sfera religiosa, ma è coscienza potenziale di rapportarsi alla realtà delle cose, di ritrovarvi il senso vero che, pur nascosto, si lascia sempre intravedere e dà significato alla vicenda umana. In un suo lavoro degli anni ottanta, la coscienza è rappresentata dall’unica figura femminile che, tra manifestanti senza volto, anonimi, guarda verso lo spettatore come a guidarlo nella lettura dell’opera: la violenza è inutile, non porta a nulla, tantomeno alla trasformazione positiva della società, sembra dire.
Un anonimo guerriero posa l’elmo del conflitto sul cadavere, mentre scale mobili portano verso un capitalismo trionfante e l’unica parola rappresentata è: Uscita. Una indicazione quasi profetica, come una liberazione alla fine di un percorso inteso come sacra rappresentazione, dove gli uomini, sebbene in ruoli diversi cercano un’uscita, un fine ultimo: la sacralità del vivere nel miglior modo possibile.
Ancora una donna, ancora lei che a viso scoperto in nuda solitudine, monocroma e intagliata dalla parola muta, ci guida in un mondo illuminato da una luce che, dall’alto di un soffitto ingombro di forme ricamate a dovere, dà senso ad ogni parte di cui il quadro è composto.
Lei, in primo piano, con alle spalle il quadro del David “La morte di Marat”.
“L’eroe è morto” annuncia con calma e distacco quasi sereno Jacques-Louis David. I colori sono annullati, ridotti al minimo. Il sangue è appena accennato, il cadavere è composto: la morte è indicata solo dall’abbandono del braccio e della testa appoggiata al bordo della vasca. Lo stesso braccio che, nel quadro di Adriano Rossoni, un uomo, dal volto coperto e anonimo, lascia cadere a sfiorare ali tenute ferme dal femmineo piede di luce della donna.
Gli angeli sono caduti dalle loro ali! Niente è rimasto! Sembrerebbe la disfatta, ma anche una perdita può unire una donna e un uomo, con tocco di piede e mano: la donna è vigile! Sembra vegliare, custodire la rivelazione. Sta nella luce e ne diviene faro, in uno spazio angusto dove l’ uomo, dal volto coperto e il corpo protetto da lenzuola, sembra un morto in un sudario d’amore, ma ancora non sa di come si sta svegli e soli, quando l’amore è anonimo, non è di facce e corpi che si svelano. Di questa donna in attesa del risveglio dell’uomo, con le mani, l’una sull’altra, messe tra le gambe, come ad argine di cintura alla sua natura feconda, ne sentiamo la preoccupazione, la bisbiglia tra le labbra semichiuse. Un’opera che sembra voler esaltare la natura potente della donna, il mistero che le è connaturato e di cui l’uomo può solo sfiorare con tocco di mano, se arreso a sonno.
la luce ma anche l’ombra o lo stesso biancore
nessun volto o uomo può essere ostentazione
monito, distruzione
solo ombra chiara segnata luce scura
e chi veglia è figlio
ai piedi di una croce
come vela di mare che ci possiede
siamo fondo e schiuma d’aria
e deponiamo
armature a smantellare corpi, nudi
perfetti carnefici o uomini divini
ognuno umano risorga
da chiodi non il sangue ma la speranza, che
la morte non sia un salire
su scala vincente in larga via
ma un lasciarsi come piuma cadere
tra braccia d’amore che mute
cantano
words social forum 15 giugno2013
ADRIANO ROSSONI, FORZA DEL MITO E MAESTRIA NEL DISEGNO
Aldo Caserini
Adriano Rossoni, è un pittore choccante. Riservato, instancabile, razionale, di “spessore”. Così si diceva, una volta. Diplomato in pittura a Brera é da anni docente all’accademia di Santa Giulia a Brescia dove insegna Disegno ed Anatomia. Appartiene a una generazione oggi al bando, quella dei pittori che sanno tener congiunti disegno, sapienza espressiva e contenuti; che coltivano la filosofia del fare, la passione per l’artigianalità dell’arte, la tensione espressiva e la visione mitica del mondo. Con questa Rossoni spiega gli eventi a partire dagli dèi, ma li racconta legandovi l’essenza dei comportamenti attuali.
Decisamente un pittore che muove controcorrente. Per stile, cultura, cammino, sapienza. Uno che non teme di andare contro moda. Orgoglioso di praticare una figurazione narrativa, ostinatamente classica e, nello stesso tempo, investita di mitologia e di sacralità, ricca di “pensiero” da rappresentare senz’altro la massima antitesi a certo modo attuale di fare arte.
Per questo può sorprendere vederlo contestualizzato all’interno di Naturarte, che nelle sue ultime edizioni era parsa procedere su espressioni piuttosto deboli, se non esangui. La scoperta dell’artista bergamasco – si fa per dire, dal momento che Rossoni è stato protagonista a Crema di importanti iniziative che hanno meritato attenzione anche fuori confine – è tutto merito di Ambrogio Ferrari di Magazzini dell’Arte e della Galleria Oldrado da Ponte che lo ha proposto e sostenuto, arrivando ad allestire questa mostra che dà luce al San Cristoforo e lo fa conoscere ai lodigiani artefice di un’arte fatta qualità grafica e di “senso” affidata a figure non di “un altro tempo”, ma a figure che intrecciandosi in vario modo generano rappresentazioni e sentimenti di quotidianità.
Rossoni è uno dei pochi che muovono da una poetica, sorretta da una filosofia. I visitatori del S. Cristoforo sono invitati a leggere quel foglietto che trovano all’ingresso del San Cristoforo. In esso è spiegato con quale sguardo egli indaga il mondo, come lo interpreta, con quali convinzioni, come in certi lavori ricompatta il gusto per la tradizione del racconto mitologico e le disserzioni dell’attualità.
“Gli dei ci hanno abbandonato e il mondo ha perso il suo incanto”, scriveva non molto tempo fa un filosofo lamentando la sparizione del mito dalla nostra cultura. Con la sua arte Rossoni dimostra che i contenuti mitici continuano ad abitare i nostri sogni, le nostre passioni, le nostre angosce. Ci fa ritrovare di essi l’origine, i luoghi i nomi. Coi simboli e le allegorie ci fa svolgere lo sguardo al cielo. Tutto senza uscire dal suo studio, senza conferire diversità ambientale alle sue figurazioni. Avvalendosi solo del disegno. Convincendo, anzi entusiasmando. Per l’uso maestro che fa del pastello e della grafite in rapporto al fatto disegnativo, alle prospettive pittoriche, al sistema logico dell’immagine; per certi tratti illusionistici da grande manierista con cui esalta le cognizioni costruttive e scenografiche. Quelle iconografiche e le “invenzioni” Il suo è un disegno nel quale non si fatica a cogliere metodo, perfezionamento, critica, apertura alle esigenze, procedimento, originalità e personalità. Insomma, è una mostra da vedere.
Articolo pubblicato sul quotidiano del Lodigiano e Sudmilano “il Cittadino” il 4 giugno 2013